La dieta vegetariana cambia il DNA, ma non c’è nessun pericolo

Dieta vegetariana e mutazioni genetiche: mangiare green per centinaia di generazioni può modificare il Dna. E ne sono esempio alcune popolazioni dell’India

Dieta vegetariana e mutazioni genetiche: mangiare green per centinaia di generazioni può modificare il Dna. E ne sono esempio alcune popolazioni dell’India.

A dirlo è un nuovo studio di alcuni ricercatori della Cornell University che hanno preso in esame i dati contenuti nel 1000 Genomes Project, il più ampio database mondiale delle varianti genetiche umane, che ha messo a confronto i profili genetici e le abitudini alimentari di popolazioni tradizionalmente vegetariane dell’India (precisamente di Pune) con quelli di popoli onnivori degli Stati Uniti (in Kansas).

Dallo studio è emerso che non solo la dieta vegetariana è ormai scritta nei geni di alcuni popoli, come quelli dell’India appunto, ma anche che può comportare una maggiore suscettibilità all’infiammazione, oltre che a un aumento del rischio di malattie del cuore e del cancro al colon. In pratica, il regime alimentare vegetariano di alcuni popoli può aver selezionato delle vere e proprie mutazioni genetiche che favoriscono la sintesi efficiente di acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6, come l’acido arachidonico, a partire dall’acido linoleico.

Si tratterebbe, secondo gli scienziati, di mutazioni in grado di esporre al rischio di livelli eccessivi di omega-6, dannosi per la salute cardiovascolare. Gli omega-6 e gli omega-3 sono coinvolti nelle stesse vie metaboliche e proprio per evitare uno stato infiammatorio cronico è bene che il loro rapporto sia sempre entro certi valori,: si calcola per esempio che nella dieta occidentale, l’introito di omega-6 è 10 volte maggiore di quello degli omega-3, mentre dovrebbe essere solo sei volte maggiore.

In una dieta in cui sono assenti gli alimenti di origine animale, le lunghe catene di acidi grassi polinsaturi devono essere prodotte dall’organismo per via metabolica a partire da una serie di precursori”, spiega Tom Brenna, che ha coordinato la ricerca. “Nei vegetariani, la domanda fisiologica di acido arachidonico, così come di alcuni omega-3, probabilmente ha favorito un corredo genetico in grado di supportare in modo efficiente la sintesi di questi metaboliti fondamentali”.

Le indagini hanno verificato che quella particolare mutazione ricorre in circa il 70% per cento dei soggetti indiani e solo in circa il 20% di quelli statunitensi considerati. La mutazione, indicata dalla sigla rs66698963, può essere un’inserzione o la delezione di una sequenza di DNA che regola l’espressione di due geni – FADS1 e FADS2 – coinvolti nella sintesi di lunghe catene di acidi grassi polinsaturi. Questa mutazione, inoltre, si sarebbe verificata non solo in India ma anche in altre popolazioni che hanno basato la loro sussistenza soprattutto sull’alimentazione vegetariana, e in quelle che hanno accesso limitato alle fonti di grassi polinsaturi, in particolare quelli che derivano dal pesce.

Ma questa cosiddetta “mutazione vegetariana” a lungo termine non ci deve spaventare e dobbiamo andare al di là di certi commenti di sicuro faziosi. Lo studio non dice affatto che ci sono rischi nel seguire quel determinato regime alimentare, ma semplicemente che si può incappare in uno squilibrio degli acidi grassi, perché se ne sintetizzano di più.

È per questo che Tom Brenna conclude così: “il messaggio per i vegetariani è semplice. Utilizzare gli oli vegetali che sono a basso contenuto di acido linoleico omega-6 come l’olio d’oliva”.

Eccolo qui il nostro amato olio di oliva, a sostegno di uno studio che non vuole assolutamente porre per l’ennesima volta la questione se la dieta vegetariana fa bene oppure no. Ben venga la scelta di una dieta vegetariana, insomma, se seguita con un certo criterio e in maniera equilibrata.

Germana Carillo

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